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La Ragazza Nella Nebbia: la recensione.

La Ragazza Nella Nebbia. Un film di Donato Carrisi. Con Tony Servillo. Una ragazza di sedici anni, che vive in un paesino di montagna, scompare nel nulla.

Tony Servillo mi è simpatico quanto la cartella delle tasse. Interpreta, nel film La Ragazza Nella Nebbia, l’ambizioso, vanitoso e spregiudicato ispettore Vogel, simpatico quanto lui. Proviene, l’ispettore, da un’indagine che ne ha macchiato la carriera: il caso del mutilatore, un imbecille che piazzava esplosivi al supermercato, nella carne in scatola, e che Vogel ha incastrato ricorrendo a pratiche disoneste. Il risultato? Dopo la condanna a 4 anni di carcere, il mutilatore viene scagionato, assolto e risarcito con un monte di quattrini da camparci sino alla fine del mondo. A far saltare i polsi dei carnivori dunque non era lui. A Vogel, narcisista quale è, ‘sta roba non andrà mai giù. Stavolta però i mutilatori non c’entrano né c’entra la carne in scatola.

In un paese di montagna una ragazzina adolescente è sparita. A lui il compito di condurre le indagini e individuare il colpevole. La famiglia di Anna Lou, questo il nome della sedicenne, frequenta una comunità religiosa dai princìpi rigorosi e molto poco propensa all’apertura col mondo esterno. I genitori sono persone per bene, distrutte dal dolore. L’intera struttura narrativa fa ampio utilizzo del flashback.  Che se c’è, in un film, un roba che mi fa schifo è proprio quella: il flashback. Ma tant’è.

Il film inizia con Vogel che, disorientato e sporco di sangue, si presenta nel cuore della notte all’ospedale di Avechot, dove viene di corsa convocato il dottor Flores, psichiatra interpretato da uno sprecatissimo Jean Reno, che nel corso dell’intera storia avrà un ruolo così inutile da far invidia al dentifricio che ti spalmi sulle labbra quando hai l’herpes. Con la pazienza del miglior Giobbe, Flores prova a imbastire un minimo di dialogo con l’ispettore stesso. E ci riesce. Dalla conversazione tra i due origina -a colpi di flashback- l’intera narrazione.

Tutto ruota attorno alla figura dell’ispettore Vogel, fanaticamente ossessionato dalle sue ambizioni di riscatto, abile nel servirsi dei media e nell’orientare l’opinione pubblica, e bravino anche nell’indagare, non fosse che -il lupo perde il pelo ma non il vizio- i suoi stratagemmi sconfinino spudoratamente, e ancora una volta, nella disonestà. Ne farà le spese il professor Loris Martini, insegnante piacereccio, colto e dai modi un po’ ambigui. Interpretato da un dignitoso Alessio Boni, il Martini finirà nell’occhio del ciclone. È lui, a torto o a ragione, il sospettato numero uno. Vogel cerca il mostro a tutti i costi. Sa che i media ne hanno bisogno e sa di averne bisogno anche lui. Non esiterà dunque a gettarlo tra le fauci della stampa.

La Ragazza Nella Nebbia, diretto e sceneggiato da Donato Carrisi autore dell’omonimo libro da cui è tratto, è un film che riesce con sana onestà nel suo intento di tenere alta la tensione lungo l’arco di tutta la storia. La sceneggiatura soffre però di alcune scelte piuttosto superficiali. La confraternita religiosa frequentata dai genitori di Anna Lou, per dirne una, ha un ruolo del tutto marginale e di scarsissima incisività. Presentata all’inizio come uno degli elementi cardine di tutta la storia, l’appartenenza dei genitori alla comunità religiosa finirà via via per non contare un fico secco. Meno male. Troppe volte media e cinema tentano di gettare sospetto su chi sceglie di vivere come gli pare. Ci si chiede tuttavia per quale motivo Carrisi (no, non è figlio di Al Bano, almeno lui), abbia schiaffato la congrega nella storia. Di scarso spessore anche il ruolo di alcuni compagni di scuola dell’adolescente scomparsa nel nulla. Le loro figure, se approfondite, avrebbero potuto dare alla trama molto di più. Un velo pietoso va poi steso sull’improbabile e pacchiana giornalista d’assalto Stella Honer, interpretata pur bene da Galatea Ranzi.

Apprezzabile invece il tentativo di evidenziare l’ormai esasperata mediaticità delle indagini, con Vogel impegnato più a comunicare con la stampa e a cercare di servirsene per i suoi scopi, che a condurre l’inchiesta.

La fotografia non è da buttare. Ma delude. Delude perché se ambienti le riprese a Nova Levante, attorno a quella meraviglia che è il Lago di Carezza, ai piedi del Latemar e del Catinaccio, non puoi non attingere a piene mani da quei paesaggi d’incanto. Meno flashback e qualche drone in più. Mi avessero interpellato avrei potuto inviare loro un po’ delle mie riprese. In trent’anni di Dolomiti ne ho da vendere.